(Articolo pubblicato sul numero 37 della rivista INDIPENDENZA – novembre/dicembre 2014)
In quest’ultimo quindicennio, il governo neo-peronista e socialdemocratico della Repubblica argentina ha costituito uno dei più strenui avversari dell’intero sistema finanziario mondiale, che vede i suoi supremi controllori agire dall’interno di noti organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, entrambi con sede a Washington.
Tale sistema mira da sempre ad esercitare un controllo capillare sui meccanismi di indebitamento di tutti gli Stati del pianeta, con l’obiettivo (nemmeno poi tanto nascosto) di condizionarne i rispettivi Governi all’atto di assumere le più importanti scelte di politica economica.
Il compianto Presidente cileno Salvador Allende, prima di essere spodestato per mezzo di un cruento colpo di Stato organizzato da Kissinger e dalla CIA, in un suo celebre discorso pronunciato dinanzi all’Assemblea Generale dell’ONU, nel 1972, riuscì a pronunciare delle parole pesanti come macigni, di cui forse solo oggi si può riuscire ad apprezzare appieno il carattere lungimirante.
«Ci troviamo di fronte ad un vero scontro frontale tra le grandi corporazioni internazionali e gli Stati. Questi», disse Allende, «subiscono interferenze nelle decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato. Per le loro attività non rispondono a nessun Governo e non sono sottoposte al controllo di nessun Parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo».
A voler chiosare l’intervento di Allende, si potrebbe forse solo aggiungere che, a partire dal 1945, vi è invero uno Stato più uguale degli altri (parafrasando Orwell), gli USA, che non solo non dipendono (nel senso di esserne vincolati) dalle grandi multinazionali e da altri organismi sovra-nazionali come FMI e Banca Mondiale ma che hanno avuto da sempre un ruolo decisivo nella ideazione e gestione di quegli stessi organismi e che ne indirizzano ancora oggi l’azione uniformandola ai propri fini geopolitici.
Ebbene, forse non vi è oggi al mondo alcun esempio più paradigmatico e meglio rappresentativo di tale scontro frontale che quello offertoci dal lungo braccio di ferro che vede contrapposti, a partire dal 2001, il governo argentino e le istituzioni finanziarie internazionali attorno alla controversa questione dei cosiddetti tango bond, ossia i titoli del debito pubblico emessi dalla nazione sudamericana, a condizioni capestro, fino ad un minuto prima del crollo del suo ultimo dicastero di orientamento neo-liberista, quello guidato da Fernando de la Rúa e spodestato dai moti di piazza di Buenos Aires nel dicembre di quell’anno.
Il nodo economico-finanziario che, all’inizio di questo secolo, dopo decenni di applicazione rigida e ossequiosa delle ricette neo-liberiste dettate da Washington, aveva condotto l’economia argentina nel baratro, era consistito nell’adozione di un sistema rigido di cambi che, agganciando il pesos (la moneta locale) alla moneta statunitense, aveva altresì costretto il Paese latino a denominare in dollari i suoi stessi titoli del debito pubblico emessi sui mercati internazionali.
Accanto a queste scelte rovinose di politica monetaria, l’Argentina si era vista destinataria, al pari di tanti altri Paesi in via di sviluppo, dei famigerati «piani di aggiustamento strutturale» imposti da FMI e Banca Mondiale che, in cambio di copiosi prestiti, l’aveva costretta ad adottare le consuete misure di marca ultraliberista ispirate dalla scuola friedmaniana dei «Chicago-boys»: apertura dei mercati, privatizzazione di industrie e servizi, riduzione della spesa pubblica, deregolamentazione del mercato del lavoro, liberalizzazione delle tariffe, abolizione di ogni forma di calmiere sui prezzi dei beni di prima necessità, ecc.
E così, dopo che tali assurde misure di politica economica e monetaria avevano generato un impoverimento generalizzato di buona parte della popolazione argentina, nel dicembre del 2001 la dichiarazione di default apparve come una decisione drammatica ma inevitabile, non essendo il Paese in grado di rimborsare i titoli venuti in quel momento a scadenza e detenuti dai numerosi obbligazionisti stranieri, i quali avevano investito massicciamente i propri capitali nei tango bond perché allettati da tassi d’interesse esorbitanti.
Offrendo un mirabile esempio a tutti i Paesi debitori del sud del mondo, l’Argentina, dunque, si dichiarò insolvente e rifiutò di rimborsare i creditori-strozzini.
Fu un gesto sacrosanto di autodifesa grazie al quale, dopo una prima fase di sconquasso, l’economia del Paese poté presto riprendersi, ancorché senza mai riuscire a tenere sotto controllo l’inflazione.
Dopo essersi insediato alla Casa Rosada nella primavera del 2003, il neo-Presidente Néstor Kirchner, inaugurando un lungo ciclo di cambiamento politico basato sul protezionismo interno e sull’integrazione commerciale con gli altri Paesi del cono-sud, nella prima fase della sua azione di governo provava in qualche modo ad evitare lo scontro frontale con il mondo dei grossi investitori finanziari internazionali, offrendo loro diverse ipotesi di soluzione transattiva che passassero per un parziale condono (o ripudio) del debito pubblico da essi detenuto[1].
Il giudice del Tribunale federale di New York, Thomas Griesa
In sostanza, la visione kirchnerista, almeno in un primo momento, si era caratterizzata per il tentativo di trovare un accordo con i maggiori detentori delle obbligazioni di Stato scadute e rimaste impagate a dicembre 2001 a condizione che essi riconoscessero il carattere parzialmente non pagabile del debito e che accettassero delle soluzioni di rimborso commisurate al progressivo livello di crescita che l’economia del Paese avrebbe auspicabilmente raggiunto negli anni a venire.
E proprio in quella ottica sposata dal Presidente Kirchner, in due soluzioni, nel 2005 e nel 2010, l’Argentina perfezionava una operazione di ristrutturazione del suo vecchio debito estero, offrendo il pagamento parziale ai suoi detentori in una misura compresa tra il 30% e il 35% del valore nominale dei titoli, maggiorato degli interessi fino ad allora maturati.
Ed è a questo punto che si apriva lo scontro con alcuni fondi d’investimento statunitensi (hedge funds) i cui controllori, nonostante fossero complessivamente titolari di un modesto 7% dell’intero debito caduto in default nel 2001, rifiutavano capoticamente qualsiasi ipotesi di parziale remissione del debito e pretendevano di essere rimborsati unicamente per l’intero valore del capitale.
E così, mentre gli hedge funds (ridenominati in sud America come fondi «buitres» ossia «avvoltoi») optavano per lo scontro frontale col Governo argentino, che veniva citato in giudizio dinanzi ad un Tribunale federale nordamericano, in Italia circa 50mila piccoli risparmiatori detentori dei bond di Stato argentini scaduti nel 2001 venivano anch’essi indotti dalle banche intermediarie (vale a dire da quegli stessi istituti che avevano loro venduto i bond) a rifiutare ogni ipotesi di rimborso parziale ed a coalizzarsi attorno ad una Task Force creata appositamente dall’ABI.
Tale iniziativa nel 2006 sfociava nel promovimento di un giudizio arbitrale (a tutt’oggi non ancora conclusosi) contro il Governo argentino dinanzi all’ICSID (International Centre for the Settlement of Investment Disputes), un organismo che è emanazione della Banca Mondiale con sede a Washington.
Negli anni successivi, ad occuparsi della vicenda del debito pubblico argentino e dei relativi accordi già stipulati con una buona parte degli obbligazionisti, è stata dunque la Giustizia degli USA la quale, per mano del vecchio e arcigno Thomas Griesa, giudice del Tribunale Federale di New York, ha infine condannato l’Argentina a pagare in via immediata 1,6 milioni di dollari agli hedge funds “ribelli” (NML Capital, divisione di Elliott Management e Aurelius Capital Management) detentori delle obbligazioni non coinvolte nei piani di ristrutturazione del 2005/2010.
Nel giugno del 2014 la pesantissima sentenza ha ottenuto la sua conferma definitiva da parte della Corte Suprema degli USA.
Due sono gli aspetti clamorosi, dal punto di vista giuridico, a caratterizzare la citata pronunzia della Giustizia nordamericana.
Intanto stupisce non poco che a decidere della rimborsabilità del debito pubblico di un Paese sovrano come l’Argentina sia stato un organismo giudiziario di un altro Paese, gli USA, in favore del quale si è dunque avuta una cessione di sovranità perfino in ambito giurisdizionale.
In secondo luogo, a mettere davvero in un angolo il Governo argentino non è stato tanto il dispositivo di condanna al rimborso integrale dei fondi-avvoltoio bensì la clamorosa e contestuale statuizione dello stesso giudice Griesa il quale ha emanato un comando imperativo anche all’indirizzo dell’agente pagatore statunitense (la Bank of New York Mellon) presso il quale il Governo argentino aveva fino a quel momento depositato i propri fondi: in sostanza, il Tribunale di New York ha vietato all’Argentina (per il tramite del suo tesoriere estero, per l’appunto la Bank of New York Mellon) di onorare i pagamenti delle cedole in scadenza a favore degli obbligazionisti aderenti ai piani di ristrutturazione del 2005/2010 fintantoché non avvenga anche il rimborso integrale a favore degli hedge funds.
Dopo la clamorosa sentenza, che ha costretto il Governo argentino a dichiarare nuovamente un default tecnico, da New York il suo ministro dell’Economia Axel Kicillof ha chiosato a caldo parlando di «estorsione dei fondi avvoltoio» mentre la Presidente Kirkner si è così espressa: «Non è un problema finanziario o giuridico, la sentenza convalida un modello finanziario su scala globale di rapina che potrebbe portare a tragedie inimmaginabili».
E pertanto, il secondo default dichiarato dall’Argentina con riguardo ai titoli scaduti nel 2001 –contrariamente a quanto molti pensano– è in realtà scaturito da un mero impedimento di carattere tecnico, frutto amaro della sentenza-Griesa, a poter pagare 539 milioni di dollari di interessi in scadenza su titoli per 13 miliardi posseduti dagli investitori che avevano accettato la ristrutturazione del debito dopo la prima crisi del 2001.
In altre parole, la Giustizia statunitense, onde favorire le rivendicazioni dei fondi-avvoltoio, ha congelato i fondi governativi depositati a New York, impedendo di fatto all’Argentina perfino di onorare i suoi pagamenti verso tutti gli altri obbligazionisti che, a differenza degli hedge funds, avevano da tempo abbassato le proprie pretese quantitative in cambio di una garanzia di rimborso in tempi certi.
Una siffatta pronunzia della Giustizia nordamericana, costituendo un attacco diretto alla sovranità argentina, era naturale che producesse una risposta veemente da parte del Governo guidato da Cristina Kirchner.
E infatti, dopo solo pochi giorni dal verdetto, il 7 agosto 2014 la Repubblica Argentina ha presentato una denuncia contro gli Stati Uniti davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sostenendo la tesi dell’intangibilità della sovranità del Paese, evidentemente intaccata dalla decisione presa dal giudice Thomas Griesa.
Al contempo, lo stesso Governo della nazione sudamericana, all’evidente fine di aggirare la sentenza del giudice di New York, ha provveduto a depositare 161 milioni di dollari per il pagamento delle cedole dei tango bond presso una banca locale, il Banco de Nación Fideicomisos, che è stato autorizzato a distribuirli agli obbligazionisti buoni, sottraendosi così al controllo della Bank of New York Mellon.
Per fare questo, il Parlamento argentino ha dovuto approvare in tutta fretta una inedita normativa che aggirasse le regole di emissione dei bond di Stato apprestate prima del 2001, che a quel tempo non soltanto imponevano al paese sudamericano di denominare in dollari le sue obbligazioni di Stato ma che lo vincolavano addirittura a pagare le cedole sugli interessi unicamente presso agenti pagatori nordamericani.
La prima ad essersi dimostrata ben consapevole del carattere storico dello scontro frontale in atto tra il suo Paese e gli USA è stata la stessa «Presidenta» Cristina Fernàndez de Kirchner la quale, dopo che si era diffusa la voce di un possibile attentato ordito ai suoi danni dall’ISIS, non ha avuto remore nel dichiarare pubblicamente quanto segue: «Se dovesse accadermi qualcosa, e lo dico molto seriamente, non dovrete guardare ad oriente ma a nord».
Giuseppe Angiuli
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1) In un altro Paese del continente latinoamericano, l’Ecuador, ha fatto scalpore l’analoga iniziativa, assunta in questi ultimi anni e fortemente voluta dal Governo presieduto da Rafael Correa, di insediare una apposita commissione istituzionale incaricata di compiere un’attività di riesame rigoroso (cosiddetto audit) dell’intero debito pubblico estero formatosi negli ultimi decenni onde pervenire al disconoscimento di quella parte di debito ritenuto «impagabile e immorale».